L’ultima avventura di Recep Tayyip Erdogan non è la Libia. È il Mediterraneo orientale, e l’Africa dell’Est. Una zona che in direzione longitudinale partendo dal Golfo della Sirte, attraverso il Sudan e l’Etiopia, arriva fino alla Somalia.

Difatti è proprio qui, al largo del Corno d’Africa e verso l’Oceano Indiano, che il Sultano ha annunciato di voler estrarre petrolio avendo ricevuto, bontà sua, «un’offerta da Mogadiscio».

Così ha annunciato rientrando dalla conferenza di Berlino sulla Libia: «I somali ci stanno dicendo: “C’è petrolio nei nostri mari. State effettuando queste operazioni con la Libia. Ma potete farle anche qui”».

Non si ferma l’appetito del presidente turco che, da almeno nove anni in realtà, corteggia il governo somalo con aiuti commerciali e cooperazione militare.

C’è da ammettere che Ankara, a dispetto delle difficili condizioni economiche, sa guardare lontano. Fregandosene delle accuse interne e esterne sul rispetto dei vari diritti, atteggiamento per la verità esecrabile, pensando piuttosto di replicare sprigionando un’energia sul piano internazionale che non sfugge più a nessuno.

Ecco allora che approfittando della crisi libica, e schierandosi nettamente con il premier di Tripoli, Fayez al Serraj, e contro il generale di Bengasi, Khalifa Haftar, Erdogan, come visto a Berlino, si è fulmineamente imposto come un attore principale.

Spartendosi, assieme al presidente russo Vladimir Putin, l’obiettivo di mettere le mani sull’ex “scatolone di sabbia” di memoria italiana, e puntando a un accordo con Mosca prima o dopo che le armi comincino a dire la loro su questo fronte.

Il Sultano non sta mai fermo. Sono mesi che la Turchia moltiplica le sue iniziative nel braccio orientale del Mediterraneo, dove negli ultimi anni i giacimenti di gas scoperti sono di grande rilevanza.

A novembre 2019 ha firmato con il governo di Tripoli un Memorandum d’intesa con cui rivendica di poter esplorare il mare a Sud dell’isola di Cipro e avere così voce in capitolo anche sul progetto di gasdotto EastMed, volto a esportare in Europa il gas israeliano attraversando la zona pretesa da Ankara.

I turchi pensano a un corridoio chiave per l’approvvigionamento energetico del ricco mercato europeo, puntando a collegare i gasdotti Trans-Anatolico (Tanap) e Trans-Adriatico (Tap), oltre al prolungamento del Turkstream verso l’Europa, inaugurato da Erdogan con Putin l’8 gennaio.

L’attivissimo Sultano non ha perso tempo e ha annunciato anzi le proprie intenzioni al mondo.

In un discorso sulle strategie di Ankara nel 2020 ha detto che comincerà a sondare la zona del Mediterraneo orientale, ricca di idrocarburi, «il prima possibile». «Avvieremo un’attività di perforazione. La nave Oruc Reis effettuerà inizialmente un’esplorazione sismica».

Il Memorandum d’intesa è il grimaldello del capo dello Stato turco. E sul petrolio e il gas presenti nell’area Erdogan ha messo subito il cappello.

Avvertendo: «Con l’accordo fra Ankara e Tripoli non sarà più possibile, da un punto di vista giuridico, fare esplorazioni, perforazioni o far passare un gasdotto nella zona situata tra la linea di demarcazione continentale di Turchia e Libia senza il loro avvallo».

Una dichiarazione che ha mostrato a tutti le sue mire sul petrolio al largo della Somalia.

A irritarsi per l’ennesima performance del presidente turco sono una serie di Paesi coinvolti nell’area: Grecia, Cipro, Egitto, Israele, la Francia, finanche l’Italia, e naturalmente l’Unione Europea. Ma per il momento senza riscontri effettivi.

La voce grossa, i pugni sul tavolo, le mosse di imperio sullo scacchiere valgono molto più di lamenti, sottili distinguo e rivendicazioni. Soprattutto Atene, con il premier Kyriakos Mitsotakis, si è mostrata furibonda per essere stata esclusa prima dal Memorandum, e poi dalla conferenza di Berlino.

Mitsotakis contesta l’accordo sulla sicurezza e la delimitazione dei confini marittimi, definito come «provocatorio», ma che consente ad Ankara di ampliare le sue frontiere in una zona strategica del Mediterraneo impensabile da ascrivere ai turchi fino a ieri.

Munito di mappe e libri di storia, il Sultano non si è fatto cogliere impreparato. Prima, spalleggiato dall’alleato Qatar, che in questi anni di crisi lo sta sostenendo finanziariamente, ha inviato droni e soldati per proteggere il governo al-Serraj dalle mire del falco Haftar.

E poco gli importa se si è alienato ancora una volta le simpatie degli altri arabi che osteggiano il Qatar – un fronte formato da Arabia Saudita, Egitto e Emirati Arabi Uniti, tutti a sostegno del generale ribelle, uomo forte della Cirenaica.

Poi, piazzato il fendente, è passato a spiegare: «Apriamo le porte a una nuova era in cui la nostra produzione, le esportazioni e l’occupazione si rafforzeranno e durante la quale difenderemo i nostri diritti e interessi sulla scena internazionale, in particolare nel Mediterraneo».

E qui c’è una lezione imparata per via italiana.

La Turchia patì la sconfitta, poco più di cento anni fa, nella guerra del 1911-12 sulla Libia contro l’Italia. «La nuova strategia di Ankara», spiega ora l’analista turco Mehmet Kanci in uno studio pubblicato dall’agenzia di stampa semiufficiale Anadolu, « va da Tripoli a Doha».

Non è dunque concentrata solo sulla difesa dei confini, ma su un’area geostrategica nuova, ricalcando le orme della visione estera di Mustafa Kemal, “Ataturk”, il fondatore della Turchia moderna.

In base a quest’ottica, scrive Kanci, «la Turchia dopo avere smantellato il corridoio del terrore ai suoi confini meridionali attraverso la trilogia di operazioni Scudo dell’Eufrate, Ramoscello d’Ulivo e Primavera di Pace, continua le sue risposte contro i tentativi di contenerla nel Mediterraneo e nel Medio Oriente».

Per l’analista «queste mosse sono di per sé sufficienti a indicare i nuovi passi» verso un’area che si allarga ormai dal Mediterraneo al Golfo Persico. La linea futura è dunque di «costruire una dinamica di difesa, dal Mediterraneo fino all’Oceano Indiano».

Una Turchia in espansione – nella debolezza palese che la circonda intorno – è un fattore inedito e insospettato da considerare nella politica internazionale.

(27 ottobre 2020)