Pubblicato su Limes il 30 Maggio 2023
a cura di Marco Ansaldo

Lo scrittore Emmanuel Carrere si è laureato a Sciences Po, l’Istituto di studi politici a Parigi, sua madre Helene Carrere d’Encausse è una celebre studiosa del mondo russo e segretaria dell’Academie francaise, e lui stesso ha ascendenze georgiane e russe. Inevitabile parlare con lui di politica internazionale, partendo proprio dalla guerra in Ucraina, e ottenere lo sguardo di un grande intellettuale europeo sull’attualità mondiale.

Limes ha incontrato Carrere, che ha 65 anni, a Porto Cervo, in Sardegna, dove per la sua opera omnia ha ricevuto il Premio Internazionale Costa Smeralda 2023.

I titoli dei suoi libri sono ormai celebri, da “Vite che non sono la mia” a “Propizio è avere ove recarsi”. Ma molti lavori (pubblicati in Italia da Adelphi) toccano anche grandi questioni internazionali: come nel romanzo “Limonov” sul controverso politico e scrittore nazionalista russo morto nel 2020, fino al recente “V13”, raccolta organizzata degli articoli che Carrere pubblicò con cadenza settimanale su diversi quotidiani europei fra il 2021 e il 2022 in cui ha raccontato, con piglio da reporter e l’approccio personale diventato il suo marchio di fabbrica, le udienze del processo sugli attentati jihadisti avvenuti venerdì 13 (da qui “V13”) novembre 2015 al Bataclan, allo Stade de France e in alcuni bistrot di Parigi. Un massacro che causò la morte di 130 persone e 350 feriti.

Emmanuel Carrere, lei come guarda all’aggressione russa all’Ucraina e come vede l’evoluzione del conflitto. Potremmo essere vicini a una tregua, oppure la guerra continuerà?

Non sappiamo, almeno, io non lo so, come si potrebbe arrivare a un negoziato laddove nessuno dei due contendenti vuole questo negoziato. Vediamo ad esempio la posizione russa: e cioè come Putin potrebbe vendere alla sua gente il fatto di proporre una trattativa.

Da poco ho letto un’intervista a Timothy Snyder, lo storico americano specializzato nella storia moderna dell’Europa centrale e orientale, in cui sostiene una tesi paradossale ma molto interessante: è possibile che in quello che è diventato un universo orwelliano come la Russia, nel quale si può dire qualunque cosa – cioè che il nero è bianco e che il bianco è nero, e tutti ci credono – che alla fine Vladimir Putin esca fuori e dica: abbiamo vinto, è finita, facciamo una grande festa della vittoria. È finita. Ecco, potrebbe anche succedere questo.

Proprio sul nazionalismo grande-russo lei ha scritto un libro di enorme successo su Eduard Limonov. Quanto pensa che questo pensiero abbia influito su Putin e sulle ragioni che hanno portato all’intervento militare di Mosca in Ucraina?

Mi è capitato che qualcuno mi chiedesse: ma secondo te che posizione avrebbe preso Limonov in questa situazione? E io credo che non ci sia nessun dubbio: Limonov non soltanto avrebbe avuto una Zeta tatuata sulla fronte (l’abbreviazione militare divenuta un simbolo, che in russo significa “per la vittoria”, ndr), ma sarebbe andato a combattere nel Donbass. Lui è stato un oppositore coraggioso di Putin.

Perché trovava il presidente russo come troppo debole, come eccessivamente molle. Poi, che ci sia stata una influenza diretta di Limonov su Putin questo non lo so. Quello che è sicuro è che le idee di Limonov, soprattutto attraverso Aleksandr Dugin (l’ideologo dell’euroasiatismo contemporaneo, considerato una forma di neofascismo, ndr), suo compagno di strada, hanno avuto sicuramente un’influenza su Putin.

Ad esempio nel libro dello studioso italiano Giuliano da Empoli “Il mago del Cremlino” (pubblicato in Italia da Mondadori, ndr) si parla di un incontro fra Putin e Limonov. E Limonov sarebbe stato sicuramente favorevole alla guerra.

Limonov era un argomento congeniale per un romanzo?

Io devo avere un argomento preciso, un nocciolo duro da cui partire per scrivere un libro. Succede che individuo un argomento, e in un modo forse un po’ pretenzioso dico: ecco, questo è quello giusto per me.

Anzi, solo per me. Ad esempio su Limonov ho sentito che ero io la persona giusta per parlarne. Eppure la gente mi diceva: “Ma sei pazzo? Che cosa scriverai su questo piccolo fascista russo?”.

Del libro di Giuliano da Empoli che cosa l’ha colpita?

Questo lavoro ha avuto in Francia un successo immenso e per me meritatissimo. Perché da Empoli ha preso un personaggio reale, Vladislav Surkov, che è un consigliere di Putin, e ha affrontato questo soggetto in un modo assolutamente interessante, laterale.

Io non credo assolutamente che il romanzo tradizionale sia morto, basti pensare ai lavori di Michel Houellebecq. Il libro di da Empoli mi è piaciuto talmente che ora sto lavorando alla sceneggiatura del film che verrà tratto dal romanzo. Ma amo soprattutto i documentari. Il mio primo libro, scritto 40 anni fa, era dedicato al regista Werner Herzog.

Credo che l’ammirazione che ho per lui sia dovuta al fatto che le cose più interessanti che ha fatto Herzog sono in particolare dei documentari.

Di recente lei ha firmato, con cento scrittori e artisti, un appello per la liberazione dell’attivista russo Aleksei Navalny, uno dei principali oppositori di Putin, incarcerato in Russia dal 2021. Come considera la sua figura?

Ammiro il coraggio che ha avuto Navalny, dopo essere stato avvelenato, e poi curato in Germania, a tornare nel proprio paese sapendo che sarebbe stato messo in prigione. Non sono uno che firma petizioni spesso, anzi non lo faccio quasi mai. Però come si fa a non firmare una petizione per Navalny? Ha dimostrato un coraggio straordinario, rischiando la vita.

Navalny potrebbe essere il soggetto di un suo lavoro?

Certo, perché no? Navalny è come Limonov: una persona fuori dall’ordinario. Il punto è: che cosa posso fare io di un personaggio del genere. Perché io, e non un altro scrittore? Per Limonov avevo meno ammirazione di quanta ne abbia oggi per Navalny. Però avevo sentito che ero io la persona giusta per raccontarlo.

Su Putin la posizione del presidente francese Emmanuel Macron è stata più comprensiva e vicina alla Russia rispetto ad altri leader occidentali. L’ha convinta?

I russi hanno inventato questo verbo: “macronirovaz”, cioè “macronizzare”, quando qualcuno ti chiama tutto il tempo e tu decidi di non rispondere (ride).

Il principio in sé è buono e giusto: cioè essere un artigiano di pace. Ma Macron si è reso conto abbastanza rapidamente che non aveva alcuna possibilità, ed è per questo che ha smesso di farlo.

La Francia accusa ancora il governo italiano di non sapere gestire l’emergenza immigrazione, e questo sta creando una frattura tra i due Paesi. Da che cosa derivano secondo lei queste continue frizioni tra Parigi e Roma?

Io spero che questa crisi si ricomponga. Non sono un giornalista da editoriale, da riflessione sulle questioni politiche o sociali perché non sono competente da questo punto di vista. I problemi li affronto da una piccola porta, in modo laterale, attraverso i miei reportage. Così ho deciso che a giugno salirò su una nave di Medici Senza Frontiere e sarò sicuramente in grado di comprendere le cose in modo più concreto ed è questo quello che mi interessa.

Nel suo ultimo libro “V13”, sul massacro del Bataclan effettuato da terroristi islamici, lei fornisce un resoconto di esperienze estreme di vita e di morte. Dove comincia la follia quando c’è di mezzo Dio?

In genere si parte dall’idea che quello che ha in testa questa gente sia un grande mistero. Ma quello che è venuto fuori durante il processo è che questi in testa avevano pochissimo. Sono persone di una ignoranza radicale, ignorantissimi sul piano religioso. Quello che c’è nella loro testa è solo una forma di fanatismo.

Un altro Bataclan potrebbe succedere?

E’ un’illusione pensare che non possa ricominciare. Ci sono studiosi che ritengono che il jihadismo abbia dei cicli, dei periodi in cui ci sono delle esplosioni. È quello che è successo nel 2015 in Francia, poi si calma. Ma è impossibile pensare che non possa ricominciare. Una certa fase, quella del Califfato, è finita, ma potrebbe essercene un’altra. Aggiungo che, simmetricamente, la cosa più da temere sono ora gli attentati dei suprematisti bianchi.

Fra la Russia e la Cina è in atto un confronto globale, su più scacchieri. Ad esempio il colpo di Stato tentato nel Sud Sudan mette ancora una volta l’Africa al centro di una possibile spartizione territoriale e geopolitica tra Mosca e Pechino. Che cosa pensa di quanto sta accadendo nel caso specifico e nel Continente? Lei riflette su questo confronto, nel quale Putin sembra lo junior partner di Xi Jinping?

Qui pensiamo tutti quanti che noi siamo l’Occidente, gli Stati Uniti, l’Europa, e che siamo il campo democratico. Che dunque la Russia sia un paria, e il suo presidente un paria. Però i russi dicono: siete voi i paria, noi siamo un campo molto più largo e molto più potente.

Siamo tre Paesi che si possono definire autocratici, e cioè la Russia, la Cina e l’India: molto più potenti di voi. E soprattutto, se a un certo punto gli Stati Uniti con i repubblicani avranno un nuovo presidente, allora vi molleranno, e sarete ancora più piccoli. Dunque, a quanto pare, i nostri sedicenti valori universali, non sono affatto universali.

A proposito degli Stati Uniti, pensa sia realmente possibile la riedizione della sfida elettorale per la Casa Bianca fra Joe Biden e Donald Trump? Non la spaventa il fatto di vedere combattere due uomini anziani? Dove sono dei giovani leader americani rappresentativi? E che cosa significa questo: un segnale d’allarme per l’America?

E’ indubbio che nel nostro campo ci siano dei segnali di debolezza, e questo ne è uno. Però non ci sono solo segnali di debolezza. Per esempio è altrettanto chiaro che la guerra abbia in qualche modo resuscitato l’Europa. E questa è un fatto importante.

Nel suo libro “Il Regno” si è lungamente diffuso sul suo rapporto con la religione. Lei come guarda a Papa Francesco, ai confronti anche duri tra riformisti e conservatori nel mondo cattolico?

Vede in futuro una Chiesa espandersi ulteriormente nel mondo africano e asiatico, dopo quello latinoamericano, o piuttosto trincerarsi verso posizioni più tradizionaliste, con l’eventuale ritorno a un Pontefice europeo, se non addirittura italiano?

Ovviamente se devo esprimere una preferenza, preferisco la prima ipotesi: cioè l’apertura, piuttosto dell’oscurantismo. Se c’è una cosa positiva che riconosco all’attuale Pontefice è il fatto di preoccuparsi di quella che lui chiama “Nostra sorella terra”.

Cioè, non tanto fare entrare l’ecologia nel discorso religioso, ma fare entrare il discorso religioso nell’ecologia. E quindi, quest’uomo molto anziano si preoccupa di un aspetto fondamentale che riguarda il futuro. Francesco guarda e vede in grande.