L’immagine del ponte di Crimea in fiamme a Kerch, via di rifornimento privilegiata della Russia ai suoi soldati e simbolo dell’annessione forzata del 2014, riporta l’attenzione sulla penisola come pezzo cruciale della guerra in Ucraina.
Un territorio fondamentale sulla scacchiera geopolitica dell’area, in un ambito storicamente ben noto agli italiani: per due secoli pieni del tardo Medioevo, dalla metà del XIII alla metà del XV, più esattamente fra il 1270-75 e il 1475, la Repubblica marinara di Genova dominò in Crimea installandovi colonie i cui nomi sono impressi tanto nella Storia quanto nella nostra memoria: Jalta, Caffa, Sebastopoli, Soldaia, assieme a città poste sull’affaccio oggi divenuto così rilevante del Mare d’Azov.
Tra cui Kerch, appunto, la Vosporo di un tempo, dove nel 1381 si installò il console genovese Antonio Malocello ed è tuttora presente una piccola comunità italiana. Tutte quante loro costituivano la cosiddetta Gazaria, cioè il complesso degli insediamenti della Repubblica di Genova in Crimea.
Ecco allora che l’attacco a Kerch nell’ottobre del 2022, che puntava a spezzare la rotta russa degli approvvigionamenti militari, spiega la posizione determinante del ponte, piazzato all’esatta confluenza fra il Mare d’Azov con il Mar Nero, fra l’ultimo lembo sud occidentale della Federazione russa e il primo bastione orientale della Crimea.
Tra l’altro, un’installazione ritenuta un gioiello d’architettura. “Quando hanno bombardato il ponte di Kerch, in Crimea – ha commentato di recente l’architetto-progettista Renzo Piano, genovese – mi è venuto un colpo al cuore. Lì per lì non mi sono neanche chiesto chi avesse colpito chi. Ho solo provato sofferenza. Una sensazione di lutto”.
Finora non sono stati sciolti i dubbi su quali forze abbiano effettivamente assaltato l’infrastruttura. Le congetture degli osservatori si sono esercitate su ipotesi e convenienze diverse, a oggi senza il conforto di prove concrete. Tuttavia l’azione ha ottenuto l’impatto per il pubblico internazionale di rinnovare i dilemmi sul futuro della penisola su cui, per motivazione strategica dello stesso presidente russo Vladimir Putin, già otto anni fa partì l’“operazione speciale” in Ucraina, di cui l’annessione della Crimea è stato solo il primo passaggio.
Con un corollario interessante circa i futuri negoziati tra le parti, non appena una tregua sarà raggiunta e i due contendenti si siederanno al tavolo gli uni di fronte agli altri ma contornati da diversi attori internazionali interessati alla trattativa: cioè che il destino della Crimea potrebbe addirittura tornare in ballo, quanto meno come punto di discussione e di contesa.
Finora le diplomazie europea e americana, nei loro colloqui informali, hanno dato quasi per scontato che un’eventuale intesa non avrebbe riguardato lo status del territorio annesso e strappato all’Ucraina nel 2014. Al punto che la comunità internazionale non ha mai riconosciuto la validità di quel referendum, il cui modello si è replicato tale e quale di recente per le quattro regioni ucraine di Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson annesse alla Federazione – a giudizio unanime di osservatori indipendenti – con un voto farsa.
Però nessuno, e all’inizio neppure lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky, aveva mai ipotizzato un possibile ritorno della Crimea sotto l’egida di Kiev.
Ora questo aspetto potrebbe tornare in discussione, almeno in linea di principio, nonostante nel merito i russi facciano forza soprattutto su un dato storico: che la penisola appartenne a Mosca per quasi due secoli dal 1783 al 1954, anno in cui Nikita Krusciov la cedette per l’appunto all’Ucraina. Se ne riparlerà presto, dunque.
Ma a ricordare la vicinanza dell’Ucraina all’Italia e della Crimea a Genova, sono una serie di dati e circostanze attuali. Nel suo famoso discorso fatto in video a marzo al Parlamento italiano Zelensky, accolto da una standing ovation e da un’attenzione infine agghiacciata per le sue parole, disse: “Mariupol, sulla costa del Mare d’Azov, che aveva mezzo milione di abitanti, è come Genova dove io sono stato.
A Mariupol non c’è più niente, solo rovine. Immaginate Genova completamente bruciata, dopo tre settimane di un intero assedio fatto di bombardamenti, di spari che non smettono neppure un minuto.
Immaginate la vostra Genova dalla quale scappano persone a piedi, con le macchine, in pullman, per arrivare laddove ci sia più sicurezza. Parlo da Kiev, dalla nostra capitale, dalla città che per la nostra regione che è altrettanto importante come è Roma per tutto il mondo”.
Parole così commentate dal massimo esperto di lingua genovese, il professor Fiorenzo Toso, ordinario di Glottologia e Linguistica scomparso improvvisamente lo scorso settembre: “Zelensky ha fatto riferimento a una città della stessa grandezza di Mariupol, ed è ovvio che abbia citato Genova piuttosto che un’altra città perché nell’immaginario storico culturale degli ucraini e di tutte le altre popolazioni della zona, se si pensa all’Italia, tolte le grandi città, viene subito in mente Genova.
In Ucraina c’è stata una presenza genovese che ha lasciato tracce ancora molto visibili, una realtà che inizia nel Medioevo e, tra alti e bassi, arriva fino all’Ottocento con la costante presenza genovese”.
Ha aggiunto poi, sempre al sito GenovaToday: “Tutta quella fascia costiera è stato un possedimento genovese è lo è rimasto fino alla caduta di queste colonie in mano ai turchi nel 1475. Era dunque un pezzo di Genova trapiantata. Poi nel corso dei secoli successivi c’è sempre stata una costante di commercio per esempio con la città di Odessa e di Mariupol; si tratta di posti dove i Genovesi andavano costantemente soprattutto per il commercio del grano perché l’Ucraina era definito il ‘granaio’ d’Europa in cui si produceva la pasta e quindi c’era questo andirivieni continuo di navi genovesi”.
E ancora: “Quando c’era questa dozzina di città genovesi lungo la costa della Crimea, nell’entroterra c’erano i tartari e si parlava la lingua tartara. Tra i tartari che sono rimasti e per tante altre popolazioni che esistevano prima degli slavi, c’è una memoria molto forte della presenza genovese, ci sono intere popolazioni che si dichiarano discendenti dei Genovesi senza nemmeno esserlo e a livello linguistico diversi studi dimostrano che ci sono parole genovesi presenti nella lingua dei tartari”.
L’esempio più eclatante ci mostra che il grano, il celebre grano oggi così al centro del dibattito internazionale e che tante regioni del mondo attendono di ricevere dall’Ucraina attraverso lo Stretto del Bosforo, in dialetto genovese si dice “‘a berdiansa”: dalla città di Berdiansk, sul Mar Nero, che costituiva una delle mete principali del traffico mercantile delle colonie di Genova.
Genova, inoltre, è la sola città italiana con cui Odessa, l’altro grande centro sul Mar Nero, sia gemellata. Mentre Mariupol lo è addirittura con Savona, dunque ancora in Liguria.
A Genova, nel quartiere della Foce prospicente il mare, il reticolo di vie attorno a Piazza Alimonda, il luogo diventato tragicamente celebre per il G8 del 2001, è fitto di strade dedicate alle colonie della Repubblica di Genova in tutta quell’area: via Crimea, per l’appunto, via Caffa, via Trebisonda, via Smirne, via Teodosia, e così di seguito per tanti nomi oggi familiari ai genovesi in una zona centrale e frequentatissima del capoluogo ligure.
Perché le vestigia genovesi nelle città della Crimea, oltre a Jalta e Sebastopoli, sono tuttora molte. La data d’inizio dell’avanzata è il 13 marzo 1261, quando a Ninfeo, nei pressi di Smirne, nell’odierna Turchia, il primo capitano del popolo di Genova, Guglielmo Boccanegra, firmava un trattato con l’Imperatore bizantino Michele VIII Paleologo, il quale aveva spostato il proprio trono a Nicea (oggi Iznik) dopo che la sua dinastia era stata spodestata a Bisanzio.
L’accordo prevedeva l’aiuto navale di una Genova in prepotente in ascesa sui mari, per arrivare a riconquistare la stessa Bisanzio e il resto dell’Impero usurpato da Venezia nel 1204 durante la IV Crociata.
Con questa intesa la Repubblica marinara, dotata non solo di comandanti di mare coraggiosi e di mercanti abilissimi, ma guidata da una diplomazia molto accorta, otteneva un plus formidabile: lo status privilegiato con l’Impero bizantino, a tutto favore delle proprie relazioni commerciali.
Ma quattro mesi dopo quel Trattato, il 25 luglio, l’Impero Latino cadeva senza addirittura combattere: il solo timore di potersi scontrare con la potente flotta di Genova sembrò motivo sufficiente ad abbandonare il campo. Da lì, e per i due secoli successivi, i Genovesi diventarono signori dell’area, sostituendosi nell’Impero a Venezia e costruendo via via un’ampia struttura di insediamenti il cui cuore era posto a Bisanzio, nella cittadella della vecchia Pera, dove nel 1348 erigeranno la Torre di Galata che domina tuttora il tratto di mare all’imboccatura fra il Bosforo e il Corno d’Oro.
Ma, poi, estendendosi fino alle isole dell’Egeo, come Lesbo e Chio, e in Bessarabia, allungandosi fino al porto commerciale e militare di Costanza nell’odierna Romania dove nel centro abitato addirittura un quarto della popolazione era costituito da Genovesi.
Se il fulcro dell’azione espansiva era Bisanzio, il territorio di conquista per eccellenza era piazzato giusto di fronte, a nord, sul Mar Nero: nella penisola di Crimea.
Questo spiega la straordinaria posizione geopolitica attuale della penisola, compresa dai Genovesi del tempo. Una piattaforma strategica unica, capace di controllare tanto il Mare Nero quanto il Mare d’Azov, garantendo vantaggiose espansioni sul mare chiamato nero per il colore delle sue alghe, ma ostico fin dall’epoca di Omero perché abitato lungo le sue coste da popolazioni barbariche, e da quel momento in poi chiamato il “Lago genovese”.
Genova pure, facendosi forte della sua flotta, spesso riusciva a sbaragliare i concorrenti con la forza della sua sola diplomazia, adottando sistemi di conquista all’avanguardia, una sorta di “soft power” attuale.
Scrive Michel Balard, lo studioso francese più esperto della Genova del Medioevo, già professore alla Sorbona di Parigi e presidente della Societé des historiens medievistes de l’enseignement superior public, autore di un importante saggio pubblicato in Italia dall’editore Laterza, “1261. Genova nel mondo: il trattato di Ninfeo”: “Era sufficiente coinvolgere le élite indigene e lasciare loro una parte dei profitti (…). Dominazione politica ferma, sviluppo economico pesante, soggezione culturale leggera: gli insediamenti genovesi d’Oltremare sono stati il ‘laboratorio’ della colonizzazione moderna”.
Altrettanti studi scientifici insuperabili sull’espansione di Genova nei territori d’Oltremare si devono al grande studioso Geo Pistarino, professore ordinario di Storia Medievale all’Università di Genova, scomparso nel 2008, il quale alla fittissima rete delle relazioni internazionali instaurate dalla Superba dedicò la vita, appassionando a quel tema centinaia di suoi allievi e colleghi.
Tra i quali lo stesso Balard, che in un convegno in sua memoria gli ha dedicato la relazione “Geo Pistarino e l’Oriente genovese”. “Per i Genovesi – rilevava Pistarino in una lettera sulla propria attività scientifica – la loro “nazione” non è circoscritta nella Liguria, ma comprende tutta la complessità delle cosiddette “colonie” (meglio direi “insediamenti”), sparsi per tutto il mondo, anzi tutti i singoli Genovesi che vivono al di fuori dei confini regionali liguri.
I Genovesi stessi si definirono nel Medioevo una “Comunitas”; io ho usato il termine, forse un poco improprio, di “Commonwealth”, alla inglese”. Come già si era espresso nel 1925 in una conferenza a Genova il grande storico romeno Nicola Iorga: “Spesse volte Genova era più nelle sue colonie del Mar Nero e del Danubio che fra le sue mura”.
E nelle loro altre Genova sparse nel mondo, in Crimea e altrove, per difendersi i Genovesi d’Oltremare cominciarono a erigere fortezze colossali, delle quali qualche anno fa l’associazione Italia Nostra ha chiesto il riconoscimento come sito Unesco, Patrimonio Universale dell’Umanità, in quanto beni culturali territoriali di notevole significato storico, urbanistico e paesaggistico.
Al centro della richiesta sia i 19 chilometri delle Mura Nuove seicentesche nell’attuale Superba, i cosiddetti “Forti di Genova” visibili in qualsiasi posizione della città (la cinta muraria più grande d’Europa, addirittura la seconda al mondo dietro alla Grande Muraglia Cinese), ma anche le fortificazioni genovesi negli antichi domini di terraferma e d’Oltremare.
Un esame che, dopo l’annessione della Crimea alla Federazione Russa nel 2014, si è arenato e la cui riproposta soffre oggi un ulteriore stop per il successivo attacco delle forze militari di Mosca su tutta l’Ucraina.
Altro sito candidato in Crimea a Patrimonio dell’Umanità in Crimea è il complesso della fortezza di Sudak, cioè l’antica Soldaia di genovese memoria, situata fra Jalta e Teodosia.
Un gioiello costruito dalla Repubblica marinara 700 anni fa, punto di contatto strategico fra le rotte delle navi che solcavano il Mediterraneo e le carovane che da terra giungevano dall’Est attraverso la Via della Seta.
Soldaia, già attraversata dai Genovesi nei decenni precedenti, fu ceduta dai Veneziani alla Superba nel 1358. Oggi la fortezza appare tuttora una roccaforte inespugnabile, per la robustezza del complesso architettonico e la posizione logistica di dominio dell’area. Sulle mura di cinta si leggono iscrizioni in latino, a testimoniare l’attività dei maggiorenti genovesi.
E la porta di ingresso alla città ricorda in molti dettagli l’aspetto delle entrate urbane della Genova attuale, come Porta Soprana. Solo l’Impero Ottomano riuscì a impadronirsene, nel 1475, inserendola come punto di forza nel suo variegato scacchiere di basi costiere.
Per inciso, la vicina attuale Teodosia (Feodosia in russo) è l’antica Caffa. E l’attuale Comune di Genova, a Teodosia e a Caffa, cioè alla stessa città pur con nomi diversi, per non far torto a nessuno dei toponimi ha dedicato ben due strade, che si incrociano nel medesimo quartiere della Foce, fra la già citata Piazza Alimonda e la centralissima Piazza Tommaseo.
Sudak è a oriente della Crimea, sulla strada verso il ponte assaltato di Kerch. Dalla parte opposta della penisola, vicino a Sebastopoli, sorge invece Cembalo, l’attuale Balaklava.
Anche questa fu una presenza genovese, fin dal 1344, testimoniata in loco da due lapidi che commemorano gli oltre cento anni di dominio della Superba sulla città.
E poi, fra le molte altre, Jalta. Il centro dove si svolse la famosa Conferenza tra Roosevelt, Churchill e Stalin per decidere l’assetto politico internazionale alla fine della Seconda guerra mondiale è tuttora, fin dal periodo zarista, una delle località balneari più eleganti del Mar Nero.
Nel XIV secolo faceva parte della rete di colonie commerciali genovesi (“insediamenti”, direbbe lo storico Pistarino). All’epoca aveva un altro nome, Caulita, o Etalita e anche Galita, prima di cadere pure essa sotto i Turchi, che la resero un territorio semi-indipendente sotto il Khanato di Crimea. Con l’arrivo degli Zar, fu per sempre Jalta.
Una visita all’Archivio Storico di Genova permette di ripercorrere le immagini di una mostra anticipatrice degli eventi attuali: “Genova e la Crimea”, ideata nel 2014 proprio da Michel Balard, con ricerche e testi della storica e archivista di Stato, Giustina Olgiati, esposizione dotata di un’evidente perizia documentale e curata da diversi enti locali, fra cui il Comune e la Fondazione di Palazzo Ducale.
Le tavole mostrano quanti e quali fossero gli insediamenti genovesi in Ucraina, da Kherson a Vosporo. E le mappe e i documenti rivelano una gran parte di attività, da commende a vendite di schiave, da contratti di noleggio a disposizioni di doti.
“Io Simone Balbo, dichiaro di avere ricevuto da te, Gherardo Ferro, 700 moggia di grano, al moggio di Caffa, per un valore di 15.400 aspri ‘baricati’ di Caffa buoni e di buon peso. Devo commerciarli a Trebisonda o dove Dio mi dirigerà, trattenendo per me un terzo del profitto”.
“Io, Jeracharona, moglie di Macometo, dichiaro di avere venduto a voi, Oberto di Pieve e Oberto di Gavi, una schiava di nome Tinaia e detta Margherita, di stirpe russa e dell’età di circa dodici anni”. “Io, Nicheta Tana, abitante a Caffa, vendo a te, Luchino dell’Orto, la quarta parte di una casa”.
“Io, Ugolino di Piacenza, dichiaro di avere ricevuto a titolo di dote da te, Francischina, mia moglie, di stirpe russa, la somma di 3.000 aspri ‘baricati’”. Nell’area, alcune grandi famiglie genovesi crearono dei veri e propri principati: come i fratelli Senarega a Illice, all’imbocco del fiume Dniestr, o Ilario de Marini a Bachtar, oppure i Ghisolfi a Matrega (Taman). Vennero spazzati tutti via dall’arrivo dei Turchi.
Ma ancora oggi, in Moldavia, Georgia, Circassia, e soprattutto in Crimea, sopravvivono leggende e tradizioni legate ai “Genevis” o, come li chiamavano gli arabi, i “Gin”, con questo indicando – come si legge nelle tavole della mostra – “dei giganti fortissimi che hanno lasciato molti castelli, molte torri, molte fortificazioni e molti reperti archeologici: solide testimonianze del loro ruolo nella storia della Crimea e dei paesi circostanti”.
Gli aspetti da indagare e ricercare nelle fonti dell’archivio genovese sono ancora tanti e su direzioni molteplici.
Oggi quelle colonie in Ucraina e in Crimea, pure considerate dai Genovesi come luoghi di confine, sono perennemente sentite come vicine e “proprie”. Erano basi militari preziose (occupate adesso dai soldati russi e abitate dai pasdaran addestratori di droni iraniani), empori commerciali di grande vivacità, simboli della genovesità all’estero.
Esposte agli appetiti stranieri, dovevano di continuo arroccarsi e difendersi. La guerra in corso ci mostra come la loro posizione strategica determinante le renda tuttora luoghi non solo semplicemente storici, ma di drammatica e stringente attualità.
(da Bucarest ha collaborato Carmen Praja)