Can Dündar, ex direttore del quotidiano Cumhuriyet, giornalista diventato una spina nel fianco delle autorità turche per aver passato quasi cento giorni in carcere a causa del suo scoop sui camion di armi protetti dai servizi segreti turchi e inviati in Siria, dopo la scarcerazione (e una nuova condanna) vive da qualche settimana a Berlino.
Per un po’ di tempo era stato a Barcellona. Poi ha deciso di cercare rifugio nella capitale tedesca. Un giorno ha atteso all’aeroporto inutilmente l’arrivo di sua moglie Dilek da İstanbul.
Ma la signora, che non ha alcun problema con la giustizia ed era stata capace di disarmare davanti all’aula di tribunale un uomo che voleva uccidere il marito, si è trovata al volo improvvisamente con il passaporto cancellato e non è mai riuscita a raggiungere la Germania.
Oggi alla radio Deutsche Welle dice: «Can non ha in Turchia soltanto un problema giudiziario. Ha un problema di sicurezza che riguarda la sua vita. Non sono favorevole a che ritorni qui. Un tentativo di omicidio c’è già stato».
Orhan Pamuk, lo scrittore turco più celebre al mondo, premiato nel 2006 con il Nobel per la letteratura, è tornato qualche anno fa a vivere nella sua İstanbul dopo anni di turbolenza, incomprensioni e minacce di omicidio.
Durante alcune perquisizioni fu trovata una lista di personalità turche da eliminare e il suo nome, sugli elenchi, era il primo. Gli ultimi quattro mesi dell’anno, da settembre a dicembre, l’autore di Neve e dell’ultimo La stranezza che ho nella testa (in Italia tutti pubblicati da Einaudi) li trascorre volentieri a New York, dove insegna letteratura alla Columbia University.
Nonostante preferisca spesso parlare di romanzi e autori, non fa mistero della sua avversione al trattamento cui vengono sottoposti oggi giornalisti e scrittori nel suo paese.
Trascorrere un po’ di tempo fuori da un clima plumbeo dopo la durissima repressione governativa scattata verso ogni categoria sociale, nessuna esclusa, a seguito del fallito golpe del 15 luglio (oltre 100 mila le persone coinvolte in provvedimenti di fermo e licenziamenti, di cui 35 mila arrestate), gli dà modo di respirare un’atmosfera diversa.
Elif Șafak, la scrittrice più venduta in Turchia, bella come una modella, brava come Pamuk e impegnata a difendere tanto il nome della letteratura quanto il proprio impegno di intellettuale, vive da anni a Londra.
Continua a scrivere romanzi intensi (qui editi da Rizzoli), che profumano di esotico e sono zeppi di echi della sua terra, e lo fa da qualche tempo direttamente in inglese. «Mi accorgo che ormai ho due approcci diversi alla scrittura», spiega, «l’inglese è più matematico, il turco è più emotivo.
Adotto l’una o l’altra lingua a seconda di quello che intendo esprimere». Elif viaggia molto per il mondo. Stati Uniti, soprattutto. Ma spesso arriva anche in Europa e l’Italia è una delle sue mete preferite quando viene invitata in convegni e festival.
Nel 2016 è tornata solo una volta in Turchia, e il suo resoconto di viaggio era un misto di nostalgia e di sorpresa per un paese che cambia a ritmo accelerato. Non sempre in meglio, però. Anche lei, quando ha rimesso piede sul volo di ritorno, è apparsa triste ma anche sollevata, pur amando immensamente il proprio paese.
Al ritorno nel Regno Unito ha trovato la notizia che il marito, Eyup Can, ex direttore del quotidiano Radikal, è inquisito dalle autorità di Ankara perché ritenuto vicino al movimento di Fethulllah Gülen, l’anziano predicatore turco dal 1999 in autoesilio in Pennsylvania, considerato dal presidente Recep Tayyip Erdoğan il mandante del colpo di Stato che ha mosso i militari golpisti.
Cengiz Çandar, inviato speciale di politica internazionale, volto notissimo in pubblico anche per le sue partecipazioni televisive a trasmissioni sportive dove analizza le partite della sua amata squadra di calcio del Fenerbahce, ha trovato asilo in Svezia.
Anche per lui il clima politico, in Turchia, ultimamente non era dei migliori. Il capo dello Stato ha intentato contro di lui, come contro diversi altri giornalisti, una causa per gli articoli critici scritti sul suo quotidiano, Radikal.
Il grande reporter si è difeso strenuamente, poi ha capito che era tempo di lasciare il paese. Per qualche mese ha trovato alloggio a Berlino. Poi l’Università di Stoccolma gli ha offerto un incarico all’Istituto di studi turchi.
Già in passato uno scrittore dai toni epici come il turco curdo Yašar Kemal, un musicista raffinato come Zülfü Livaneli e un giornalista attento ai diritti dei lettori come l’ex ombudsman del quotidiano Sabah, Yavuz Baydar, hanno trascorso anni di libertà di espressione in Svezia, durante i regimi militari in Turchia, prima di rientrare in patria.
Oggi la pratica è tornata in uso. I nomi dei turchi in fuga sono tanti. E i paesi che ospitano traduttori e registi, artisti e accademici, sono altrettanti.
Nell’Europa dove la Turchia resta paese candidato all’ingresso molti intellettuali turchi oggi in rotta di collisione con il proprio governo conservatore di ispirazione religiosa hanno trovato ospitalità e rifugio.
C’è così chi sta in Italia, accolto da amici in una masseria pugliese, e chi in Francia, tra Parigi e Nizza. C’è chi è volato in Spagna e chi su un’isola greca. Ma non sono pochi quelli che hanno scelto di andare oltre Atlantico, negli Stati Uniti d’America e in Canada.
L’esilio, per tutti, non è dorato. Molti hanno perso il lavoro, e il turco non è una lingua di facile impiego all’estero, né spendibile sui media come l’inglese o il tedesco. Molte delle loro famiglie, inoltre, così come nel caso dell’ex direttore di Cumhuriyet, sono divise: mogli che non riescono a raggiungere i mariti, figli che vivono lontano dalle madri, casi tristi e qualche volta disperati.
Menti eccelse, aneliti liberali, ma senza soldi per mantenersi. Nell’attesa che un giorno tutto cambi, e si possa presto tornare in patria.
Can Dündar adesso racconta, dalle colonne del prestigioso settimanale tedesco Die Zeit, le sue prigioni, analizzando i cambiamenti della Turchia, vista sì da fuori, ma da un uomo che ha sempre vissuto a İstanbul e che conosce il proprio territorio come le sue tasche.
Le autorità turche, dal momento del fallito golpe, a metà luglio, non si sono fermate nemmeno un giorno nel loro repulisti. Puntualmente, ogni 24 ore centinaia di persone continuano a essere fermate e licenziate.
Persino dentro al partito al potere, pure nei servizi di intelligence. L’attività di repressione non conosce sosta e molti cittadini sono chiamati alla mobilitazione e anche alla delazione, pur di riconoscere i nemici, stanare i traditori e colpire gli autori dell’attacco al potere costituito.
Quando, a settembre, la caccia alle streghe ha toccato due intellettuali molto noti come lo scrittore Ahmet Altan, già direttore del quotidiano Taraf, e il fratello Mehmet, accademico ed economista di fama, imprigionandoli in una cella di pochi metri quadrati, con la luce accesa giorno e notte, senza la possibilità di leggere o scrivere – in una situazione molto simile a quella descritta da Burhan Sönmez nel romanzo Istanbul Istanbul negli stessi giorni apparso in Italia (presso Nottetempo), con la città di sopra e quella sotterranea, la città della speranza e quella dell’ombra – Orhan Pamuk ha contattato la Repubblica e inviato un testo durissimo pubblicato subito in prima pagina e intitolato «La mia rabbia per la Turchia che cancella la libertà».
«Si stanno via via chiudendo in cella», scriveva il Nobel chiedendo la liberazione di molte delle personalità incarcerate, «tutte le persone che si permettono di muovere critiche anche minime all’operato del governo in carica, persino con il minimo pretesto.
E si procede a questo non tanto in forza del diritto, ma sulla base dell’odio più feroce. Ormai la libertà di pensiero non esiste più. A grande velocità ci stiamo allontanando da uno Stato di diritto verso un regime di terrore. (…)
Il punto in cui è arrivato il mio paese mi offende molto e mi avvilisce! Tutte queste manifestazioni di mancanza di sensibilità e di crudeltà daranno della Turchia un’immagine davvero molto negativa».
3. Le immagini di decine di giornalisti in manette – opinioniste ultrasettantenni famose come Nazlı Ilıcak o vecchi editorialisti un tempo vicini al pensiero di Mao Zedong come il campione dei diritti umani Sahin Alpay – hanno fatto il giro del mondo, suscitando commiserazione verso un paese che attacca tanto duramente la libera stampa.
Tutti loro, a centinaia, come gli insegnanti, i poliziotti, i giudici, i diplomatici, gli impiegati nella pubblica amministrazione, si trovano rinchiusi dietro le sbarre, in attesa di processo.
La mano delle autorità turche si è allungata più volte anche all’estero. In patria uno dei primi quotidiani a essere colpito era stato Zaman, giornale finanziato da Fethullah Gülen, imprenditore anch’egli di provenienza marcatamente religiosa e fondatore nel mondo di centinaia di scuole islamiche.
Il suo potere all’interno dei media, negli ambienti immobiliari, nella polizia e nella magistratura sono ben noti. Del resto, fino al 2007, quando il governo dell’allora premier Erdoğan cominciò a intaccare le prerogative – fino ad allora amplissime – dei generali, Recep e Fethullah erano stati buoni alleati nell’impresa comune di estromettere i militari dalle istituzioni.
Tante fotografie di allora li mostrano sorridenti insieme. Ma oggi è tutto cambiato. C’è un uomo solo al potere, il quale aspira a una repubblica presidenziale che gli darà ancor più mano libera.
E il capo dello Stato, a gran voce, chiede agli Stati Uniti l’estradizione del vecchio imam, forse foraggiato dalla Cia, che a İstanbul orde di barbuti e di donne velate attendono sventolando in piazza il pendaglio da forca (auspicato dallo stesso presidente).
Zaman era un buon giornale, scritto bene, documentato e molto vivace graficamente. Un foglio ovviamente schierato. Ma la sua edizione in inglese, ad esempio, era piena di notizie e retroscena interessanti e fuori dal coro.
Oggi l’edizione di Zaman France, ha dovuto chiudere per aver ricevuto più di duecento minacce di morte. Chiusa anche la redazione belga che – ha spiegato il suo direttore – non poteva più permettersi di accettare le minacce arrivate da cittadini turchi pro governo contro i lettori.
E la stessa pubblicazione in Germania ha rotto i fili con la Turchia ufficiale e prova a imporsi in un mercato editoriale composto da 3 milioni e mezzo fra turchi e curdi.
Ma poco importa ad Ankara – che negli ultimi anni non ha lesinato critiche a testate internazionali di grande peso, dalla Cnn alla Bbc, dal Financial Times all’Economist – che settimanali prestigiosi come Der Spiegel pubblichino una dietro l’altra copertine dedicate alla Turchia («C’era una volta una democrazia», ne titolava una, con l’immagine di un filo spinato dietro la bandiera rossa con la mezzaluna e la stella).
Il governo turco non sembra scomporsi di fronte alle dichiarazioni durissime che gli arrivano dall’estero. Va avanti come un rullo compressore.
La grande epurazione, difatti, non tocca solo l’ambiente dei media, ma si allarga a quello della cultura. E la stretta sugli intellettuali, passando per le migliaia di docenti e di funzionari allontanati dai loro incarichi o licenziati, si abbatte sul mondo dell’arte e dell’istruzione.
A ottobre il ministero per gli Affari europei della Turchia ha sospeso la borsa di studio Jean Monnet, finanziata dalla Comunità, che aveva permesso a centinaia di studenti di frequentare alcune fra le migliori università europee. Le misure restrittive contro docenti turchi assieme alla sospensione dall’incarico di migliaia di professori hanno poi portato numerose accademie europee a interrompere, come segno di protesta, il programma Erasmus in Turchia.
Il governo di Ankara è di seguito uscito da un altro progetto, Creative Europe, avviato dalla Commissione europea nel 2014 per sostenere i settori dei media e della cultura.
Alla base della decisione presa dal ministero degli Esteri il forte disappunto sul finanziamento di un progetto musicale di ampio respiro che vedrebbe coinvolte, fra il 2015 e il 2017, orchestre di diverse città fra cui Dresda, Belgrado, Madrid, Erevan e İstanbul, con l’intento di commemorare il centenario del genocidio degli armeni, cioè uno dei maggiori tabù in Turchia.
L’Italia non si è trovata esclusa da quella che è stata definita come una furia vendicatrice post golpe. Ad Ankara il Teatro di Stato, sede di molti bravissimi registi e attori, considerato in Turchia un’istituzione di ottimo livello, a settembre ha deciso di bandire dai cartelloni le opere, fra gli altri, di Shakespeare, Čekhov, Brecht e Dario Fo.
Poco prima di morire, il premio Nobel per la letteratura italiano, ha commentato con la consueta vena sarcastica: «Mi sento come se mi avessero dato un altro Nobel». Non solo Fo. Quattro opere del drammaturgo Stefano Massini, responsabile artistico del Piccolo di Milano, già programmate al Teatro nazionale di Ankara e in altri palcoscenici pubblici, sono state respinte perché ritenute, ha riferito l’agente di Massini, «pericolose per l’ordine pubblico» e «contrarie ai valori del sentire comune».
Nejat Birecik, vicepresidente dell’associazione dei Teatri di Stato, ha spiegato così la decisione di affidarsi a soli autori turchi: «Siamo umanisti nazionalisti. Apriremo la stagione in tutti i teatri solo con testi locali per contribuire all’unità e all’integrità della patria e a rafforzare i sentimenti nazionali e religiosi».
Lo slogan della stagione è diventato: «Il sipario della Turchia si apre con il teatro turco». Il direttore del Piccolo, Sergio Escobar, ha preso una decisione: «Apriamo le porte agli attori e ai registi turchi. Ospitiamo tutti i loro spettacoli. Alla censura di Erdoãan bisogna rispondere con gesti concreti».
In proposito una lettera è stata inviata ai teatri tedeschi, inglesi, francesi e ungheresi, raccolti nell’Ute, Unione teatri d’Europa, con la richiesta di una condanna contro la decisione del governo turco di mettere al bando autori e artisti occidentali.
Ancora Burhan Sönmez in un articolo su Die Zeit ha parlato di «Odio contro i libri», bollando gli attuali vertici politici in quanto espressione di gente di scarse letture e di modesta attitudine alla democrazia.
Mentre il capo dello Stato rinnova di altri tre mesi lo stato d’emergenza (ma ci sono personalità come il suo predecessore Abdullah Gül che non sono per nulla d’accordo), mentre si fa strada il progetto di togliere l’immunità parlamentare alle decine di deputati curdi regolarmente eletti ma accusati di terrorismo (appartenenti all’unico partito che ormai si oppone al presidente), mentre Erdoğan dalla platea delle Nazioni Unite chiama i leader mondiali a «prendere le necessarie misure contro l’organizzazione terrorista gulenista per la loro stessa salvezza e il futuro dei loro popoli» (ma in molti paesi europei crescono le perplessità), il futuro della Turchia si fa incerto.
Quello che era ritenuto il laboratorio più dinamico nei rapporti fra Oriente e Occidente, tradizione e modernità, sembra ora essersi perso.
Nel frattempo molte idee nascono proprio nel mondo dei media e fra quanti sono in fuga dal paese. Can Dündar annuncia di voler lanciare una nuova iniziativa editoriale dalla Germania, dove si è trasferito definitivamente.
«Molti giornalisti sono disoccupati, molti colleghi sono a spasso», spiega. «La mia intenzione è di fare qui quello che stavamo cercando di fare in Turchia, dove avevamo mani e piedi legati».
I finanziatori si stanno organizzando, e la crema dell’intelligencija turca sparpagliata in tutto il mondo è pronta a tornare al lavoro, concentrandosi da fuori sul proprio paese. Una rete ampia, sviluppata, esperta, con gli occhi puntati sulla Turchia.
(novembre 2016)