Il Sultano sa già come si fa. La sua Turchia è un concentrato di costruzioni galattiche: ponti intercontinentali, tunnel sotterranei, agglomerati urbani. E allora perché non in Libia?

Dove ha vinto la battaglia di Tripoli cacciando il ribelle generale Haftar, inseguendolo fino in Cirenaica ora che pure i mercenari russi della brigata Wagner hanno battuto in ritirata. I turchi, a fare la guerra non sono secondi a nessuno. Da un po’, a tirare su anche palazzi.

Il grande appalto turco sulla Libia è partito. Le mani di Erdogan si allungano sulle aree più ghiotte, dall’interno alla costa, senza disdegnare il mare che risalta sempre più come un giacimento energetico di tesori. Sulla terra autostrade, basi militari, installazioni strategiche.

Nel “mare nostrum”, piattaforme e trivelle. La Libia è la nuova frontiera della Turchia, il business del futuro. E dalla Tripolitania la direzione degli affari ha buone possibilità di dirigersi sulla Cirenaica, vero scopo della caccia al generale sconfitto.

L’altro giorno nella capitale libica si sono materializzati i fedelissimi di Recep Tayyip Erdogan. Un gruppo di mandarini con in tasca un mandato preciso: avviare la pace (e la ricostruzione) in città, e continuare la guerra a Est (senza accettare la tregua).

I personaggi del blitz: il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, quello dell’Economia, Nihat Zeybekci, il capo delle Finanze (e genero del leader) Berat Albayrak, il numero uno dell’intelligence Hakan Fidan, e il portavoce presidenziale (con rango di ministro) Ibrahim Kalin.

Un’incursione tenuta segreta, capace di ribaltare le agende diplomatiche, con buona pace del ministro italiano Luigi Di Maio che nella notte si è visto spostare il suo appuntamento di Ankara a oggi.

La delegazione turca si è seduta attorno al tavolo con al Serraj, i suoi ministri e alcuni imprenditori selezionati. Tema: la ricompensa al Sultano per averlo sostenuto al potere.

Nei fascicoli aperti dalle due rappresentanze, i titoli e le mappe delle grandi opere. In dettaglio: la costruzione di alcune aree di Tripoli, strade, abitazioni, complessi commerciali. Altro dossier: le due installazioni chiave, la base aerea di al Watjya e il porto di Misurata.

Andranno entrambe rafforzate non solo militarmente, ma con iniezioni di cemento. Quindi, l’irrobustimento dell’esercito di al Serraj, con l’utilizzo dei micidiali droni turchi, veri protagonisti della vittoria di Tripoli.

Infine i ponti. Le gallerie. I ministri economici del leader turco hanno preso buoni appunti.

Ma a quel tavolo erano presenti pure i vertici della compagnia petrolifera libica di Stato. E il fascicolo sull’energia e il petrolio è stato il più consistente.

La Turchia avanza proposte sui campi in Tripolitania, con le esportazioni attualmente bloccate a causa dei porti fermi per la guerra. Il memorandum d’intesa sul Mediterraneo firmato tra i due Paesi alla fine dello scorso anno consente alle navi di Ankara di avvicinarsi alle coste africane per avviare prospezioni petrolifere.

In Cirenaica però i pozzi sono ancora nelle mani dei ribelli, tanto a Est quanto a Sud. E allora, in prospettiva, si guarda alle strade e ai porti verso Sirte e Bengasi, se dovessero essere “liberate”.

Ecco perché l’esercito turco, rafforzato dalle milizie siriane filo turche e turcomanne arrivate dal bollente fronte curdo siriano, si è lanciato alla caccia di Haftar. La sua debacle prelude al colossale appalto turco sulla Libia intera. Ma per arrivarci Erdogan deve superare i veti di Russia e Emirati, schierati con il ribelle.

L’Italia guarda alla sua fetta di torta in Libia, dove un tempo la faceva da padrone. Di Maio ad Ankara cercherà di posizionarsi. La liberazione a maggio della cooperante Silvia Romano avvenuta con l’aiuto turco consentirà all’Eni di poter tornare a trivellare in zona: nel 2019 le navi italiane erano state cacciate proprio dai turchi, e il via libera viene giudicato un buon risultato.

Per le attività della Marina turca, giudicate come “illecite”, Francia, Israele, Grecia, Cipro e Emirati si coalizzano. Roma, invece, con Ankara adesso non protesta più.