L’incursione con cui truppe di Ankara hanno di fatto annesso due ettari di terra siriana per riportare a casa la tomba di Suleyman Shah conferma le ambizioni neo-ottomane di Erdoğan. Per lui lo Stato Islamico è uno strumento, non un problema.

Che cosa vuole fare, che cosa ha inteso dire la Turchia con il blitz notturno compiuto a febbraio in Siria per reimpossessarsi della tomba di Suleyman Shah (Süleyman Şah Türbesi), poi lasciata in pieno territorio siriano, ma a ridosso del confine turco?

È la domanda che molti osservatori si pongono dopo un’operazione militare a sorpresa, capace di creare un precedente fra due paesi ormai nemici e gravida di conseguenze sul piano geopolitico.

Nella notte fra sabato 21 e domenica 22 febbraio le Forze armate di Ankara sono penetrate per ben 35 chilometri in Siria, per effettuare un’operazione di chiara impronta simbolica, portando in salvo il feretro del nonno di Osman I, il fondatore dell’impero ottomano.

Pure i 38 soldati di Ankara di guardia al mausoleo, formalmente territorio turco in base a un trattato del 1921 firmato tra Francia e Turchia, isolati da otto mesi, sono stati riportati in patria.

Non è stata tuttavia un’azione indolore. Secondo i dati poi forniti dal premier turco Ahmet Davutoğlu, i militari turchi hanno impiegato 572 soldati, 39 carri armati, 57 blindati, un centinaio di altri veicoli, perdendo un militare addetto alle fotografie.

Nel compiere il blitz la colonna ha attraversato la città «martire» di Kobani, attualmente sotto il controllo dei miliziani curdi. Subito dopo l’operazione Ankara ha inviato una nota diplomatica al governo di Damasco, informandolo di avere «provvisoriamente» spostato la tomba di Suleyman Shah, mantenendola però in territorio siriano, a soli 180 metri dal confine.

In sostanza, le forze militari turche occupano adesso quasi due ettari di Siria. Nulla da un punto di vista geometrico, molto invece sotto il profilo geopolitico, militare, strategico, persino psicologico.

Non a caso Ankara ha poi inviato una lettera anche all’Organizzazione delle Nazioni Unite, affermando che la base militare evacuata al mausoleo «è ancora in terra turca», come ha significativamente detto ai giornalisti il ministro degli Esteri, Mevlüt Çavuşoğlu:

«Confermiamo che è ancora in terra turca. E vi torneremo». Il luogo che ospitava le spoglie di Suleyman Shah, vicino ad Aleppo, è stato poi fatto esplodere, per evitarne un uso come base dai militanti dello Stato Islamico (Is).

Il santuario è stato riposizionato oltrefrontiera, ma vicinissimo al villaggio turco di Eşme. Una locazione temporanea, precisano le autorità di Ankara.

Durissima la risposta di Damasco: l’incursione turca, ha reagito il governo di Baššār al-Asad in una dichiarazione letta dalla tv di Stato, è una «palese aggressione» di cui Ankara verrà ritenuta responsabile.

Il fatto che l’Is non abbia attaccato la tomba, sostiene Damasco, «conferma la profondità dei legami tra il governo turco e questa organizzazione terroristica».

Nelle ore seguenti al blitz gli stessi media turchi si chiedevano se l’operazione fosse stata concertata con l’alleato americano, con i gruppi curdi considerati però come terroristi da Ankara, o addirittura con il «califfato» islamico.

Un analista attento come Sinan Ülgen, presidente di Edam, il Centro di studi per la politica e l’economia con base a Istanbul, ha spiegato che «la tomba di Suleyman Shah costituiva da molto tempo per la Turchia un punto di vulnerabilità» e che «con questa operazione, questa debolezza è stata eliminata, perché il califfato islamico avrebbe potuto usare la presenza della tomba in caso di un qualsiasi tipo di confronto con la Turchia».

C’è anche chi ha pensato a una mossa elettorale di sapore nazionalistico da parte del presidente Recep Tayyip Erdoğan, sempre più coinvolto, nonostante il suo altissimo incarico istituzionale, nell’importante appuntamento con le elezioni politiche del prossimo 7 giugno.

Alcuni media panarabi, come il quotidiano al-Šarq al-Awsaṯ, hanno notato che la Turchia «è stata molto chiara nella sua intenzione di fare tutto il possibile per evitare scontri», mentre avrebbe informato della missione lo stesso Is attraverso «canali indiretti».

Con il sottinteso, dunque, di un dialogo aperto con il «califfato», con cui Ankara tratta seppure per interposto interlocutore.

Proprio il nuovo Stato terrorista guidato dall’autoproclamato califfo Abū Bakr al-Baġdādī – che già nel nome (Abū Bakr) si richiama indicativamente al primo della dinastia dei califfi arabi, successore di Maometto – si mostra come il vero portabandiera della lotta al presidente siriano Baššār al-Asad e come l’autentico protettore dei sunniti contro gli sciiti in Mesopotamia.

Ma qui è l’atteggiamento della Turchia a non essere più intelligibile da parte dell’Occidente. Perché mentre si preparano le offensive di terra in attesa del fin troppo sbandierato attacco contro la città di Mosul, conquistata dall’Is, nello scacchiere siriano gli Stati Uniti vorrebbero poter contare sull’alleato turco.

Washington e Ankara hanno appena firmato un memorandum per addestrare un esercito di opposizione a Damasco, avvalendosi della collaborazione di Arabia Saudita e Qatar.

Ma la Turchia, com’è evidente ormai da anni, ha in Siria un interesse del tutto diverso rispetto ai paesi occidentali. Il suo obiettivo primario non è affatto l’abbattimento del «califfato», quanto la caduta del regime di al-Asad, con lo scopo di ergersi a difensore dei sunniti nella regione, colmando in futuro anche il vuoto che potrebbe crearsi nel territorio siriano.

Così iniziano a comprendersi i motivi reali del blitz notturno, i primi assaggi di possibili nuovi iniziative militari (quel «torneremo» pronunciato dal ministro degli Esteri).

L’atteggiamento ambivalente di Ankara diventa palese per i reporter che si spingono nella regione turca meridionale dell’Hatay, il cui confine con la Siria è attraversato di giorno e di notte da giovani europei con il look da rapper e da ragazze filtrate all’aeroporto di Istanbul.

Un confine che si concretizza talvolta con una rete di metallo bucata e dove le vicine torri di osservazione sono baluardi abbandonati da tempo.

Qualche volta le guardie di frontiera acchiappano i fuggiaschi, altre volte lasciano perdere. Una città come Antakya (Antiochia), anni fa considerata una base per i ribelli siriani che intendevano deporre al-Asad, è diventata oggi una stazione di ritrovo di jihadisti stranieri in attesa di saltare la frontiera.

La cosiddetta «autostrada turca» del jihād non è più soltanto un modo di dire. Le reclute agganciate sul Web passano infatti quasi tutte da Istanbul. E quando un simpatizzante decide di partire per la Siria o per l’Iraq sale sempre su un volo diretto verso la città sul Bosforo oppure punta su Ankara.

L’anno decisivo è stato il 2012, quando il governo islamico allora diretto da Erdoğan decise infine di consentire il passaggio dei volontari anti-Asad. Più volte sia l’Europa sia gli Stati Uniti hanno chiesto al leader turco di bloccare la via d’uscita, ma le testimonianze dei jihadisti ribadiscono che la porzione di terra fra l’Hatay e la Siria è un confine del tutto poroso.

E in altre città come Şanlıurfa e Gaziantep i volontari arrivano per essere presi in consegna dalle cellule del «califfato». A fungere da punti di incontro sono gli hotel. Proprio dagli alberghi partono le staffette dirette alla frontiera. I numeri sono in costante aumento: da qui sono passati tremila occidentali, di cui fra i cinquanta e i cento italiani, oltre ad almeno mille cittadini turchi.

La ricollocazione della tomba di Suleyman Shah, così, offre la traccia di un possibile disegno. Quell’intervento, che serve alla Turchia per creare un’area propria in territorio siriano, si salda infatti con la notizia di campi di addestramento per ribelli anti-Asad aperti in Anatolia. Quanti di questi ribelli non sono miliziani jihadisti?

I dubbi dell’Occidente su Ankara, già forti, si dischiudono su un altro fronte: quello dei curdi. Non è un caso che Erdoğan non abbia mai voluto aiutare né militarmente né dal punto di vista umanitario la città siriana di Kobani, proprio di fronte alla frontiera turca, quando pochi mesi fa stava per cadere nelle mani dell’Is.

Solo i peshmerga curdi, i guerriglieri «che guardano in faccia la morte», foraggiati dall’Occidente (Italia compresa, con qualche centinaio di mitragliatrici), sono riusciti con una battaglia davvero strenua ad allontanare per ora lo spettro dei jihadisti.

Ma i leader curdi, con Necirvan Barzani all’inizio di marzo a Roma a colloquio con papa Francesco per un intervento di pace, sostengono di non riuscire più a combattere da soli, chiedendo con forza un sostegno concreto. La partita, per la Turchia, si gioca così anche su un altro fronte delicatissimo: quello dell’Iraq curdo, dove impera la famiglia Barzani.

Ma anche su quello interno, in Anatolia, dove una disinvolta, cinica, ma politicamente interessantissima operazione di avvicinamento fra Ankara e il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) di Abdullah Öcalan – un tempo il nemico numero uno, «l’assassino dei bambini» come i giornali dovevano scrivere nelle cronache sul «leader terrorista» – potrà portare voti freschi a un partito islamico (Akp) in caduta di immagine.

La Turchia ha intavolato con il Nord Iraq curdo, uno Stato di fatto dalla fine della guerra del 2003 contro Saddam Hussein, fruttuosissime relazioni economiche e commerciali.

Il rapporto, tuttavia, diventa scivoloso quando il discorso passa alla geopolitica. Ankara teme da sempre l’idea, oggi piuttosto concreta, del Grande Kurdistan, composto dai territori curdi in Siria, Iraq, Iran e Turchia.

E con i curdi siriani che adesso progettano il Rojava, cioè il Kurdistan occidentale come loro regione autonoma. Rispetto a tale rischio, Ankara preferisce il vuoto istituzionale del «califfato», continuando a premere per la caduta di Damasco.

Sul piano interno la ribellione curda potrebbe spegnersi con l’inedita offerta di Erdoğan a Öcalan. I colloqui prima fra il capo dell’intelligence Hakan Fidan (candidato alle elezioni legislative) e ora fra il ministro dell’Interno e gli emissari del fondatore del Pkk (tuttora recluso nell’isola di İmralı, sul Mare di Marmara) proseguono fitti.

Obiettivo: un’intesa inedita con i curdi con lo scopo di chiudere i trent’anni di guerra nel Sud-Est dell’Anatolia e ottenere i voti per l’Akp di Erdoğan o per un partito curdo che appoggi quello islamico conservatore.

L’appoggio curdo viene considerato da Erdoğan come essenziale in parlamento per trasformare la Turchia in repubblica presidenziale, obiettivo del leader dopo le elezioni.

Ovvio che i curdi, invece, pensino a riconoscimenti politici, economici e culturali, con lo scopo finora non dichiarato di vedere un giorno Öcalan addirittura libero, quando quindici anni fa era stato condannato prima alla pena capitale e poi all’ergastolo.

La Turchia considera rischiosa la concessione di maggiori diritti ai curdi, perché ciò implicherebbe, prima o poi, l’emergere di un’entità statale capace di sconvolgere il Medio Oriente sul piano geopolitico. Oggi Erdoğan, non si sa quanto consapevolmente, ritiene di poter governare questo magma bollente.

Se l’occupazione turca di due ettari di Siria sia un primo passo verso un espansionismo futuro, è un gioco che si scoprirà presto. Intanto, sui manifesti elettorali i suoi deputati si presentano con abiti e barbe ottomane, solleticando le ambizioni del «sultano», alleato sempre meno affidabile dell’Occidente.

La Turchia è apparsa persino dubbiosa in un primo momento sull’opportunità di condannare la strage di Parigi contro i vignettisti di Charlie Hebdo. E anche se il premier Davutoğlu ha finito per partecipare ai funerali, il quotidiano di sinistra Cumhuriyet, considerato colpevole di aver ripubblicato le vignette, ha conosciuto il licenziamento immediato del suo direttore.

La stampa, nel paese della Mezzaluna, soffre anni terribili. Sempre più questa Turchia ha interessi divergenti rispetto all’Occidente, che vede in al-Asad il male minore e nel «califfato» il pericolo vero.

Mentre cresce il timore che, se l’Is dovesse essere sconfitto nella guerra in preparazione, si produca un ulteriore vuoto geopolitico perché non ci sarebbe nessuna istituzione credibile e radicata nel territorio oggi gestito dal «califfo» che possa prenderne il posto.

(aprile 2015)