Pubblicato su “Corriere del Ticino”, 22 giugno 2023
Di Marco Ansaldo
Quarant’anni fa, a Roma, si perdevano per sempre le tracce di Emanuela Orlandi, 15 anni, una studentessa figlia di un collaboratore del Papa e cittadina vaticana. Questa è la sua storia.
La via Sant’Egidio, in Vaticano, inizia subito entrati dall’ingresso principale dello Stato pontificio, Porta S. Anna. Una breve svolta a destra passata via del Pellegrino, qualche scalino e si è subito nell’edificio in cui da decenni, ormai, vive la famiglia Orlandi. E dove abita tuttora Maria Pezzano, 93 anni, madre di Emanuela Orlandi, la ragazza scomparsa il 22 giugno 1983, 40 anni fa, e mai più tornata a casa.
«A gennaio, per decisione esplicita di papa Francesco, il promotore di giustizia della Santa Sede, Alessandro Diddi, e la gendarmeria vaticana hanno aperto ufficialmente per la prima volta le indagini sulla scomparsa della ragazza. Sono state così rinnovate le richieste per sentire per la prima volta alcune persone, ancora in vita, considerate importanti per fornire un contributo decisivo alle indagini.
Fra queste, la compagna di scuola di musica che si trovava con Emanuela il pomeriggio in cui la ragazza svanì e il cardinale Giovanni Lajolo che, nel 1983, ricopriva un importante ruolo diplomatico. Ad aprile il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, con l’avvocata Laura Sgrò, ha incontrato per la prima volta Diddi, ha verbalizzato la sua testimonianza e presentato le informazioni che lui stesso ha raccolto nel corso degli anni, oltre a una lista di possibili testimoni.
Nell’elenco Orlandi, oltre al cardinale Giovanni Battista Re, ha messo il cardinale argentino Leonardo Sandri, presente in Segreteria di Stato vaticana la sera della prima telefonata sul rapimento, l’ex comandante della Gendarmeria vaticana Domenico Giani, il suo vice Costanzo Alessandrini, i procuratori Giancarlo Capaldo e Giuseppe Pignatone. Nel frattempo, in Italia a marzo è stata istituita una commissione parlamentare bicamerale di inchiesta sulla sparizione di Emanuela. E a maggio la Procura di Roma ha aperto il terzo fascicolo sul caso.
C’è una spinta internazionale forte. La docu-serie di Netflix Vatican Girl ha affascinato ovunque milioni di spettatori. Mentre Roma, in vista dell’anniversario, è tornata a tappezzarsi dei manifesti con la foto di questa ragazza di 15 anni, vittima probabilmente di un colossale complotto. Uno degli scandali irrisolti della storia italiana e vaticana, con implicazioni e sospetti che chiamano in causa la Santa Sede, l’Italia, il terrorismo internazionale, i servizi segreti di molti Paesi e persino la banda della Magliana.
Emanuela scompare per la sua famiglia intorno alle 16 del 22 giugno 1983. Per alcuni testimoni, invece, poco più di 3 ore dopo, terminato l’impegno alla scuola di musica dove studiava flauto, in piazza S. Apollinare. Uscita da lezione 10 minuti prima del tempo, Emanuela telefonò a casa da una cabina; rispose la sorella Federica ed Emanuela le disse che un uomo l’aveva fermata proponendole un lavoro di volantinaggio per la Avon Cosmetics, retribuito con la somma di 375 mila lire, da svolgersi in una sfilata di moda di lì a pochi giorni.
Dopo la telefonata, Emanuela aspettò l’uscita delle compagne del corso e assieme a due di esse, Raffaella Monzi e Maria Grazia Casini, raggiunse la fermata dell’autobus di corso Rinascimento. Verso le 19.30, prima Maria Grazia e poi Raffaella presero due diversi bus dirette a casa, mentre Emanuela non salì sul mezzo, troppo affollato, dicendo che avrebbe atteso quello successivo. Da quel momento le tracce della ragazza si sono definitivamente perse.
La denuncia della scomparsa fu formalizzata la mattina dopo all’Ispettorato di pubblica sicurezza vaticano dalla sorella Natalina.
Gli appelli del Papa
Domenica 3 luglio 1983, durante l’Angelus, il Papa rivolse un appello per la liberazione di Emanuela, ufficializzando per la prima volta l’ipotesi di un sequestro. Giovanni Paolo II farà in tutto 8 appelli pubblici per il ritorno a casa della ragazza. Il 5 luglio la Sala stampa vaticana ricevette una chiamata: all’altro capo del telefono un uomo, che parlava con uno spiccato accento anglosassone (e per questo subito ribattezzato l’«Americano»), disse di tenere in ostaggio Emanuela e chiese l’attivazione di una linea diretta con il Vaticano.
L’«Americano» chiamava in causa Mehmet Ali Agca, il turco che il 13 maggio 1981 aveva sparato a Wojtyla. E ne reclamava la liberazione dal carcere. L’8 luglio un uomo con inflessione mediorientale telefonò a una compagna di conservatorio di Emanuela, dicendo che la ragazza era nelle sue mani, che c’erano 20 giorni di tempo per fare lo scambio con Ali Agca e che doveva essere istituita una linea telefonica diretta con il cardinale segretario di Stato, Agostino Casaroli.
Agca, interrogato dalle autorità italiane, condannò subito il rapimento della ragazza dichiarandosi estraneo alla vicenda. Il 4 agosto arrivò all’ANSA di Milano un comunicato con un nuovo ultimatum e un rinnovo della richiesta di scarcerazione di Agca. Il messaggio era firmato da un gruppo sconosciuto: il Fronte di liberazione turco anticristiano «Turkesh». Da quel momento si alternarono le telefonate dell’«Americano» (16 in tutto) e i comunicati di Turkesh (7).
In seguito all’apertura degli archivi della Stasi, a Berlino, si scoprì che i comunicati di Turkesh erano opera di Günter Bohnsack, l’ex capo della Abteilung X della Stasi. «Era uno dei metodi che mettemmo in campo per la cosiddetta Operation Papst, stabilita per difendere la Bulgaria dalle accuse di essere dietro l’attentato di Agca – ha detto Bohnsack -. Un’operazione di disinformazione destinata a togliere l’attenzione contro Sofia. Eravamo molto creativi».
L’11 luglio 2005 il primo colpo di scena clamoroso: alla redazione di Chi l’ha visto? giunge una telefonata anonima dopo la quale si scopre che nella Basilica di Sant’Apollinare, adiacente alla scuola di musica di Emanuela, è sepolto Enrico De Pedis, «Renatino», uno dei capi della banda della Magliana, ucciso nel 1990 vicino a Campo de’ Fiori. Le carte dimostrano che la sepoltura del boss era stata voluta e autorizzata dal cardinale Ugo Poletti, a quel tempo presidente della CEI e vicario del Papa a Roma.
L’incredibile scoperta fa ipotizzare un legame molto forte tra la Magliana e la Santa Sede. Arriviamo al 2006. In un’intervista Tv, Sabrina Minardi – ex moglie del calciatore Bruno Giordano e compagna, per tre anni, proprio di De Pedis – afferma che è stato il boss della Magliana a far rapire Emanuela. La Minardi racconta che, la sera del sequestro, lei e De Pedis si incontrarono all’EUR in un parcheggio dove a un certo punto arrivò una BMW verde guidata dall’autista del boss, «Sergio» (possibile uomo della Avon e rapitore materiale di Emanuela): a bordo c’era la ragazza, che nei giorni seguenti sarebbe stata tenuta prigioniera in una casa della famiglia Minardi a Torvaianica e poi trasferita nella capitale in un’abitazione privata.
Secondo la Minardi, De Pedis aveva rapito la Orlandi su ordine di monsignor Paul Marcinkus, a quel tempo presidente dello IOR. Qualcuno ipotizzò che l’«Americano» potesse essere Marcinkus, ma non fu mai provato. Minardi disse pure di avere aiutato più volte De Pedis a portare a Marcinkus un miliardo di lire in contanti, dentro alcune borse.
Nel corso delle indagini, tuttavia, la credibilità della donna venne messa più volte in discussione. La Procura di Roma la considerò testimone inattendibile. In colloqui e interviste con chi scrive, il giudice Rosario Priore disse che la Magliana rapì Emanuela per ricattare il Vaticano e pretendere così la restituzione di una grande somma di denaro: forse 20 miliardi di lire, secondo quanto affermato dall’ex componente della banda Antonio Mancini.
Magistrati scomodi
Il 2 febbraio 2010, a Istanbul, in un appartamento scelto dall’ex Lupo grigio, si incontrano Agca e Pietro Orlandi. Al fratello di Emanuela, Agca fa il nome del cardinale Re come persona probabilmente informata sui fatti.
Nel 2012 altro colpo di scena. Nel Palazzo di Giustizia di Roma entrano due emissari della Santa Sede: il capo della Gendarmeria, Domenico Giani, e Costanzo Alessandrini. I due funzionari vaticani propongono all’allora procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo di far rimuovere la tomba di De Pedis da Sant’Apollinare, fonte di «grande imbarazzo» per la Santa Sede. Il magistrato accetta la richiesta ma in cambio chiede collaborazione sul caso Orlandi. Due giorni dopo, i due emissari accettano la proposta e offrono a Capaldo un fascicolo contenente nomi di possibili informatori. Spiegano, però, che non si può andare oltre questa lista. Capaldo risponde chiedendo a Giani «la restituzione del corpo di Emanuela, viva o morta che sia, alla famiglia».
Due settimane più tardi i due emissari vaticani dicono di poter accettare lo scambio a patto che Capaldo fornisca all’opinione pubblica una storia verosimile per assolvere la Santa Sede da ogni responsabilità. I gendarmi pretendono però che la reale verità sul caso non venga mai fuori. La trattativa naufraga e il 2 aprile 2012 Capaldo dichiara che il Vaticano è a conoscenza di quanto accaduto ad Emanuela. Il giorno dopo, il 3 aprile, il coraggioso magistrato è rimosso dal suo incarico e sostituito da Giuseppe Pignatone, che subito ne smentisce le dichiarazioni. Nel 2019 Pignatone sarà nominato presidente del Tribunale vaticano.
Nel 2002, quando il Boston Globe scoprì lo scandalo dei preti pedofili, si ipotizza un collegamento con il caso Orlandi. Di recente ha poi preso forza la pista di una morte, forse accidentale, della ragazza, dopo un «incontro conviviale» tenuto la sera stessa della sua scomparsa in una casa del Gianicolo, nella residenza di un alto prelato. Tutte le successive rivendicazioni e implicazioni legate al terrorismo internazionale e al crimine organizzato non sarebbero state altro che depistaggi.
Nel 2015 la Procura di Roma archivia l’inchiesta sulla sparizione di Emanuela Orlandi. L’anno seguente la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso presentato dalla madre della ragazza. Un silenzio durato anni, fino alla svolta di questi giorni.
Il 6 giugno, a Palazzo Madama, la commissione parlamentare d’inchiesta ascolta il giornalista Andrea Purgatori, autore e conduttore di molte trasmissioni dedicate al caso e voce narrante della serie di Netflix Vatican Girl. «Credo di essere l’unico ad aver seguito la storia di Emanuela dall’inizio, nei primi giorni della sparizione, e credo di avere anche una buona esperienza da cronista per aver seguito molte commissioni parlamentari d’inchiesta», dice Purgatori.
«Nella mia esperienza sul caso Orlandi ho capito che c’erano cose di cui non si voleva parlare. Esiste un aspetto di strategia del silenzio che la Santa Sede ha usato, e ben venga adesso il fatto che il Papa abbia deciso di andare a fondo. Nel corso degli anni, l’atteggiamento del Vaticano è stato duro e violento nei confronti di chi diceva cose diverse da quelle che si volevano sentire. Sull’ipotesi di un ricatto finanziario alla Santa Sede, venni rimosso dal Corriere della Sera nel seguire questo caso. Ci sono aspetti che non sono mai stati affrontati, ad esempio il ruolo dei servizi segreti. Queste, adesso, sono proprio le tipiche attività che una commissione d’inchiesta può finalmente svolgere».