Pubblicato su IL T, 25 agosto 2023
Di Paolo Morando

Con la Turchia prima o poi dovremo fare i conti davvero. Il suo ruolo geopolitico è oggi centrale: gli unici colloqui diplomatici tra Ucraina e Russia dall’inizio del conflitto si sono svolti là, ad Antalia e Istanbul. Mentre Putin è atteso ad Ankara proprio in questi giorni, con la speranza di mezzo mondo che il presidente turco Erdogan riesca a sbloccare l’accordo sul grano.

Benché pubblicato da Marsilio ancora qualche mese fa, prima delle elezioni di maggio rivinte da Erdogan al ballottaggio, il libro di Marco Ansaldo «La marcia turca» (sottotitolo: «Istanbul crocevia del mondo») è uno strumento indispensabile per prendere le misure a una questione che da tempo vede l’Occidente in imbarazzo: che fare con un Paese musulmano, pieno di contraddizioni e storture, che però da tempo chiede di entrare in Europa. Per proseguire una marcia che parte da lontano.

«L’impero ottomano ha grandeggiato per secoli in questa parte del mondo, ma oggi la Turchia non è più da tempo il Paese di secondo piano del secolo scorso: è un Paese che conta, che conterà sempre di più e su cui saremo costretti a contare», spiega Ansaldo, che presenterà il suo libro lunedì prossimo a Rovereto, alle 19 alla libreria Arcadia, primo incontro del dopo estate.

In Italia nessuno più di lui è esperto di Turchia: già inviato speciale di «Repubblica» per la politica internazionale, oggi è analista geopolitico, consigliere scientifico di «Limes» da Istanbul, vaticanista per «Die Zeit». Alla Turchia ha dedicato tre libri («Chi ha perso la Turchia», «Uccidete il Papa», «Il caso Ocalan»), oltre a una lunga serie di reportage e interviste, programmi in radio e tv, conferenze e convegni, le voci dell’Enciclopedia Treccani e del Dizionario Utet, l’invenzione del «Foro di dialogo intergovernativo fra Italia e Turchia».

Ansaldo, come è nato il suo interesse verso la Turchia?

«Un po’ per caso. Nel 1993, giovane cronista, venni mandato da Repubblica a seguire una rivolta alla periferia di Istanbul: nessun collega voleva andarci. Poi gli eventi si sono succeduti, come la vicenda di Ocalan a Roma, ma anche il terzo posto della Turchia nel 2002 ai mondiali in Corea, il no dell’Ue all’ingresso, poi i diversi tentativi di colpo di stato, la rivolta di Gezi Park nel 2013…

Dopo tutto questo, oggi la Turchia ha interessi dalla Libia ai Balcani, dall’Africa al Caucaso, dall’Europa all’Asia. È un Paese per noi imprescindibile. La guerra in Ucraina ne è l’esempio palmare.»

Alle recenti presidenziali, gli osservatori internazionali speravano apertamente che Erdogan perdesse. Lei è sempre stato più cauto.

«Il popolo turco ha scelto chiaramente. Io negli anni ho criticato Erdogan centinaia di volte, ma non si può non ammettere la sua forza: tra l’altro, chiusa l’èra Merkel, la sua leadership politica è nel mondo la più longeva. Il prossimo marzo ci saranno altre elezioni importanti, amministrative: andranno al voto tutte le grandi città, dove quattro anni fa il partito di Erdogan perse.

Ora, sull’onda del successo presidenziale, punta a riprendersi. E riconquistare Istanbul, per il suo peso e per il profilo internazionale di Erdogan, potrebbe essere molto importante.»

Sbagliò l’Unione europea nel 2004 a opporsi all’ingresso della Turchia?

«La Turchia è rimasta scottata da quella decisione: è l’unico caso di un Paese non ammesso dopo essersi candidato. E i colloqui tra Ankara e l’Europa datavano già dagli anni Sessanta. Oggi i negoziati sono formalmente congelati, è stato ammesso solo un capitolo negoziale su 33, ma dopo la propria vittoria Erdogan ha rilanciato la questione. E un eventuale fronte contrario dovrà tenere conto della sempre maggiore forza che la Turchia esprime a livello geopolitico, commerciale e diplomatico.»

Nelle scorse settimane è spuntata pure una candidatura comune Italia-Turchia per i Campionati europei di calcio del 2032. Un tempo non sarebbe mai potuto accadere.

«È un fatto estremamente interessante. Tra l’altro, ho colto qualche frizione tra la Figc e il governo, che invece premeva per una candidatura solo italiana, che però rischiava di non passare. Di qui l’accordo con la Turchia, che pure era candidata. Ne discutevo giorni fa con Roberto Mancini, prima delle sue dimissioni da ct della Nazionale: sono un vecchio tifoso blucerchiato. E mi diceva di quanto è bella Istanbul, dove ha allenato il Galatasaray, aveva un ottimo ricordo. Credo che questa candidatura unitaria vada letta in un quadro geopolitico, non solo sportivo.»

Il tremendo terremoto di febbraio ha provocato oltre 50 mila morti: un colpo del genere metterebbe in ginocchio un Paese.

«In Turchia temono un “big one” entro il 2030, l’Anatolia è una terra geologicamente complicata, ma si stanno da tempo attrezzando. Anche economicamente è un Paese ancora fragile: la lira turca è debole, l’inflazione è altissima e la disoccupazione a due cifre. Però negli ultimi vent’anni la Turchia è comunque cresciuta moltissimo. E ha potenzialità enormi: l’età media è 32 anni contro i 44 dell’Ue. È un Paese grande e meraviglioso, fatto di genti diverse, che noi italiani conosciamo ancora troppo poco.»

Erdogan è però una figura ancora indigeribile per gli standard democratici occidentali. Gli intellettuali turchi, molti in auto esilio, gli si oppongono tenacemente.

«Se sarà in grado di compiere un’ulteriore trasformazione, dimostrando la capacità di avere una visione più ampia, Erdogan potrebbe riconciliare le tante parti del Paese, portandolo a diventare una piena democrazia.

Le critiche sono fondate: per le sue posizioni verso le donne, gli oppositori politici, gli intellettuali. Scrittori e scienziati emigrano in Europa, Stati Uniti, addirittura in Australia. Così come tanti giovani in difficoltà percepiscono la Germania come un paradiso rispetto all’Anatolia.

Ma al tempo stesso l’opposizione è debole e soprattutto divisa, non ha un leader rappresentativo. Mentre i turchi, popolo compatto e disciplinato, è abituato a riconoscersi in una figura carismatica.

Ci auguriamo tutti che Erdogan possa diventare anche un leader pienamente democratico. Ne avrebbe le possibilità, perché non esiste Paese in grado di avere un’ambizione talmente forte e un’influenza così globale.»