ISTANBUL — «È un errore. E temo che ci costerà». Orhan Pamuk guarda la costruzione acrobatica di Santa Sofia dal terrazzo di casa. C’è aria fresca la sera e i minareti sono illuminati. La voce del muezzin arriva fin qui.

L’ex museo, così caro allo scrittore autore del romanzo “Il museo dell’innocenza”, è tornato ora una moschea. «Mi ricordo – aggiunge l’autore di tanti romanzi fortunati collegati ai colori (“Il mio nome è rosso”, “Il libro nero”, “Il castello bianco”) – quando ancora vent’anni fa Santa Sofia era dipinta di giallo.

Credo di essere stato la sola persona a seguire da lontano con grande interesse i lavori per darle il colore rosato che ha oggi. Devo ammettere, sono stati bravi».

Pamuk è solo in casa. Cucina pesce per il suo ospite, un delizioso tortino di carciofi, e stappa una bottiglia di vino turco freddo.

Aperitivo con vista sul Topkapi, il Palazzo imperiale dei sultani, e su Santa Sofia. Un brindisi e un sospiro. La testa va sempre ai romanzi da scrivere e agli impegni da onorare.

«Devo finire il nuovo libro, e ho i miei 52 editori nel mondo col fiato sul collo – sorride – Mi sono bloccato, perché non faccio che rispondere alle mail».

La Turchia di oggi, con questo passo voluto dal presidente Erdogan, solleva una questione fondamentale ora: il Paese è ancora laico come lo ha voluto Mustafa Kemal o no?

«Kemal Ataturk decise di trasformare Santa Sofia nel 1934. E allora era moschea ottomana».

Appunto, perché lo fece?

«Perché voleva sottolineare il fatto che lo Stato turco e il suo governo sono laici. Era anche un messaggio lanciato a livello internazionale: “Siamo diversi dagli altri Paesi e governi musulmani, noi vogliamo far parte del mondo occidentale”. Questo era il messaggio».

E ora?

«Ora stanno annullando quel messaggio con un discorso populista, anti-occidentale e islamico. È ovvio che è la nazione a decidere il destino di Ayasofya. Ma ci sono milioni di turchi come me che credono nel secolarismo e si oppongono a questa decisione».

Che cosa possono fare?

«Visto che in Turchia non c’è libertà di parola, le loro voci non vengono ascoltate!».

E che cosa caratterizzava la Turchia con il fatto di essere un Paese laico?

«Che i turchi sono orgogliosi di avere l’eredità secolare di Kemal Ataturk. Di essere diversi dalle altre nazioni musulmane. Ma adesso questo orgoglio è stato tolto dalla nazione. E questo è un errore, un errore populista».

Ma Erdogan cerca di compattare l’elettorato conservatore e religioso del suo partito con quello dei nazionalisti. Non è così?

«In realtà, il governo non si comporta sempre come un islamista dalla linea dura. Durante i duri giorni del coronavirus, ad esempio, aveva deciso subito di chiudere le moschee per le preghiere del venerdì. Ecco, questa è stata una stata scelta molto secolare. E tutti ne sono stati contenti».

Gli altri Paesi musulmani come si sono comportati?

«In Iran e Pakistan i governi non sono stati così coraggiosi da decidere di chiudere le moschee alle folle».

Perché qui sì?

«Perché il governo turco ha potuto chiudere le moschee proprio in virtù dell’eredità di Ataturk».

Invece ora?

«Ora quell’eredità è distrutta».

Passiamo al piano di sopra, aperto da poco. Da qui la vista è ancora più bella, e Santa Sofia con la sua cupola grigia immersa nel rosa delle pareti pare dominare il Bosforo sottostante. Dentro ci sono ancora pochi mobili, e gli spazi sembrano immensi.

Pamuk mostra il sofà davanti alla finestra dove qualche volta si assopisce cercando il fresco. «Di notte mi piace ascoltare la voce del muezzin».

Fa strada nei corridoi, e confessa di essersi messo a correre qui dentro durante il lockdown («avendo più di 65 anni non potevo uscire, secondo le disposizioni, così giravo per 40 minuti al giorno»).

Mostra con orgoglio come ha organizzato le sue librerie (20 mila volumi). Quella dedicata alla letteratura italiana (ci sono Dante e Manzoni, Boccaccio e Svevo, Moravia e Eco) sta proprio nel salone del sofà, assieme alla tedesca.

Poi, fra sopra e sotto, c’è quella della letteratura francese, quella sulla storia, le traduzioni dei suoi libri. I 52 editori, appunto, per più di 60 Paesi.

In una stanza piccola, invece, ha impilato tutti i suoi manoscritti, in scatole da trasloco. E qui, a sorpresa, c’è anche un baule nero, con molte lettere dentro. Pamuk lo apre.

È un dono prezioso: a Stoccolma vi dedicò il suo discorso da Nobel. Divenne un libro, “La valigia di mio padre”. Non ebbe bisogno di citarne il colore, nel titolo.

(25 luglio 2020)