SURUC (confine turco-siriano) — «Calling Kobane, calling Kobane…». Mustafa parla dentro il suo cellulare, ma dall’altra parte del confine la sua amata Hulya non risponde. Nessuno risponde ormai più da Kobane. Linea tagliata. «Sto continuando a chiamare», dice Mustafa.

Da giorni, inutilmente. Si siede, come tutti in queste ore a Suruc, sul ciglio della carrozzabile, e sconsolato guarda a dieci chilometri più in su il fumo che sale, mentre nel cielo chiaro di queste giornate afose scorrono i caccia turchi che sganciano gli ordigni, e il rumore dei mortai finisce per rimbombare in testa come una ferita lacerante.

Suruc e Kobane, l’una turca e l’altra siriana, sono città sorelle. Curde entrambe, però. Divise da un confine, oggi ancora più sigillato dopo l’invasione turca della Siria.

Mustafa ha 18 anni, la testa nascosta da una felpa e sneaker ai piedi. Potrebbe essere un ragazzo di una qualsiasi città d’Europa. Sullo smartphone, quasi scarico, mostra la foto di Hulya, 17 anni, bionda. È incredibile quante donne dai capelli chiari si incontrino in questa regione.

“Sbooom”. Il suono degli obici arriva con un’ondata di polvere e vento. Oggi pomeriggio sono morte due persone a Suruc, 9 in totale in questa parte di Turchia.

Ma oltre la frontiera sono quasi 400 le vittime ammesse dalle autorità di Ankara, riferite ufficialmente “ai terroristi neutralizzati”. Di civili uccisi parlano solo le organizzazioni umanitarie. Centomila è la cifra di profughi in fuga citata dall’Onu.

Famiglie che scappano verso Sud, verso il nulla. In Turchia non possono certo arrivare, visto che Erdogan vuole già riversare sulla Siria i 3,6 milioni di rifugiati ospitati in questi anni.

Kobane in fiamme è tristemente gemellata con Suruc. Era la città simbolo della resistenza curda, capace di sconfiggere e ricacciare i jihadisti ai quali per anni il governo di Recep Tayyip Erdogan ha permesso di scorrazzare in lungo e in largo.

A Suruc, qualche anno fa, 32 persone, per lo più giovani, saltarono in aria al Centro Culturale Amara, dove la Federazione delle associazioni della Gioventù socialista si era riunita per portare materiali nella Kobane da ricostruire: giocattoli, libri, documentari. Un massacro incomprensibile.

Suruc è la città del melograno, e nella piazza centrale il monumento è una mano di pietra che solleva il frutto verso il cielo.

La piccola folla di residenti assiepati sul bordo della strada tiene lo sguardo dritto sulla città sorella, mitragliata di continuo, come le vicine Ras al-Ayn (dove l’esercito è penetrato per 4 chilometri) e Tall Abyad (8 km).

La tv di Ankara, grondante retorica, dà la notizia dei primi due soldati turchi uccisi. La lezione di giornalismo impartita dal Sultano è stata ben assimilata dai capo redattori dei quotidiani di Istanbul.

Con fare grave, il ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, può ora annunciare l’arresto di 121 cittadini: sono accusati di “favorire la propaganda al terrorismo” per avere inviato sui social media messaggi critici con l’operazione militare.

Nulla sfugge all’occhio del censore. Le persone sotto inchiesta, aggiunge il ministro, sono “quasi 500”.

Dentro le case di Suruc, con il fronte militare davanti, le notizie reali arrivano per assurdo dalle padelle satellitari sistemate sui balconi.

Il Pentagono americano, in un soprassalto di lucidità, manda il suo “forte” invito alla Turchia affinché interrompa l’operazione “Fonte di pace”. Donald Trump ventila, forse, «severe sanzioni». Ma solo, spiegano i suoi consiglieri, «se necessario».

Un Erdogan sarcastico risponde subito picche a quelle che definisce “minacce”: «Qualunque cosa dicano, non faremo passi indietro». Davanti a lui, ieri mattina il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, quasi balbettava: «L’esclusione della Turchia dalla Nato è sicuramente fuori discussione. Sono fiducioso che l’intervento in corso sia proporzionato».

Una tale sbornia di fiducia non sembra condivisa a Qamishli, località della Siria del Nord, la regione curda detta Rojava, dove un’autobomba rivendicata dall’Isis ha ucciso 6 persone.

E dove almeno 5 jihadisti risultano in fuga dopo che l’artiglieria turca ha bombardato e distrutto la prigione in cui curdi e americani avevano assicurato i terroristi veri, quelli del cosiddetto Stato Islamico.

Intuizione condivisa persino da Vladimir Putin, il quale avverte che l’offensiva turca rischia di ridare slancio ai miliziani dell’Isis che “potrebbero fuggire”: «Non sono sicuro che Ankara possa prendere il controllo della situazione. Dove andranno? Passeranno dal territorio turco o da altre zone?».

Il caos regna sovrano nel territorio a cavallo fra Turchia e Siria. Dove non esistono certezze. A meno di non prendere per buone le penose esibizioni dei diplomatici turchi, mandati a difendere l’indifendibile in conferenze stampa surreali.

Come quando, ieri a Roma, assicuravano che «le cose sono più complesse di come le presenta la stampa» e che «la situazione non è bianca e nera come la presentano i giornali». Vogliamo apprenderlo dalla libera stampa di Erdogan, ridotta tutta all’esilio o alla prigione? A Suruc e a Kobane oggi si spremono melograni e vite. Sarà la Storia, più prima che poi, a giudicare gli attori di tanto dolore.

(12 ottobre 2019)